LA STORIA DEL
RISOTTO
Il risotto
è nato a Napoli. Quest’affermazione, con qualche esagerazione, e una
buona dose di approssimazione (due caratteristiche tipiche - secondo
alcuni - dei napoletani) contiene in sé alcuni grani (si stava per
dire: alcuni chicchi) di verità. Considerando infatti che il riso è il
padre del risotto, va ricordato che l’uso alimentare del riso in
Italia è incominciato a Napoli. Non che l’abbiano scoperto i
napoletani, il riso: l’avevano portato fino al loro gli spagnoli (per
la precisione: gli Aragonesi) nel XIV secolo. I napoletani
cominciarono così a consumarlo come piatto unico: però non fu mai, per
loro, unico quanto la pasta. Che proprio in quegli anni andava
affermandosi e fermandosi stabilmente a Napoli. Il riso invece a
Napoli non si trattenne, e nemmeno venne trattenuto; emigrò presto al
nord, dove peraltro già lo conoscevano come farmaco e come ingrediente
per dolci, e vi prese stabile dimora. Favorito in ciò dall’abbondanza
d’acqua, per lui indispensabile per crescere bene. Fu così che l’uso
alimentare del riso si affermò soprattutto nel settentrione d’Italia.
L’abitudine di mangiare riso perciò non è per nulla napoletana. E
ancor meno quella di preparare risotti. Più (e prima) che un piatto, il
risotto è un modo di preparare il riso, che si chiama “cottura
a risotto”. L’archetipo del risotto è il risotto alla
milanese. E, come vedremo, non solo l’archetipo: anche il prototipo.
La sua origine non è un giallo; è una leggenda. Il colore
dipende dallo zafferano, pianta i cui fiori sbocciano in ottobre. La
parte superiore dei pistilli (lo stimma)contiene una sostanza oleosa e
aromatica. Gli stimmi vanno essiccati e macinati, fino a ricavarne una
polvere gialla, un po’ amara e un po’ piccante.In Italia lo
zafferano si coltiva poco, negli Abruzzi e in Sardegna. In Europa lo
producono la Spagna e la Grecia, nel mondo le maggiori piantagioni di
zafferano si trovano in India e in Iran. Dove la mano d’opera costa
poco: una fortuna, dal momento che l’intera lavorazione dello
zafferano è manuale. Per fare un chilo di zafferano si devono
raccogliere 150 mila fiori, e ci vogliono 500 ore di lavoro. Lo
zafferano si impiega in cucina (per il risotto di cui stiamo parlando, e
per altro), ed entra nella preparazione di sciroppi e di liquori. E non
si ferma qui; entra anche in chiesa. O per lo meno c’è entrato in
passato. E proprio là ha dato vita al risotto alla milanese.E’ una
bella storia, e bisogna raccontarla bene. A partire dal 1385
cominciarono a giungere a Milano artisti, architetti,artigiani,
muratori, pittori, vetrai. Per dare il loro contributo alla“Fabbrica
del Duomo”; un immenso cantiere che rimase aperto per decenni, fino ad
esitare in quell’incredibile testimonianza del gotico fiammeggiante
che sembra uscita dall’estasi di un mistico.Tra i convenuti c’era un
fiammingo di Lovanio, tal Valerio Perfundavalle, di professione
pittore di vetrate. Per conferire ai suoi gialli un tocco di
brillantezza in più, Perfundavallle impiegava lo zafferano. A Milano si
lavorava sodo fin d’allora, e lo spacco per il pranzo era piuttosto
breve (non c’erano ancora i sindacati, del resto). Il nostro pittore
pertanto si riduceva a mangiare un po’ di riso dalla “schiscetta”,
sul suo ponteggio sospeso tra terra e cielo. Com’è e come non è, un
bel giorno, causa un movimento maldestro, un po’ dello zafferano che
serviva per le vetrate finì nel riso.La leggenda sorvola sulle reazioni
del nostro eroe (avrà forse sacramentato in fiammingo, a bassa voce
dato il luogo). Però….il riso colorato di giallo pareva proprio
appetitoso. E il sapore? Perfundavalle esitò un istante. Poi si
disse:che male può farmi? E’ una pianta! (Come la cicuta, NdR).Così
l’assaggiò. Gli piacque molto. Da quel giorno le sue vetrate furono
un po’ meno gialle, e il suo riso lo fu di più. La voce, com’è
ovvio,si sparse. E lo zafferano passò in cucina. Come dire: dal croco
al cuoco.Questa storia è sicuramente falsa, dalla prima all’ultima
parola. Ma è suggestiva, perché mette insieme i due must di Milano: il
Duomo, e il risotto alla milanese. Facendoli nascere nello stesso luogo,
l’uno dall’altro.Le scatole cinesi non hanno fine: da tutto questo
scaturisce – secondo un’altra leggenda – anche il
nome“risotto”. Un umanista, assaggiando questo singolare riso
giallo, pare abbia esclamato: “Risus optimus!”Leggende ed amenità a
parte, è documentato che la “cottura a risotto” è una tecnica
tutta italiana.Che non si facciano avanti i soliti cinesi (che ci stanno
- stavolta - sulle scatole): che smacco per loro, inventori di quasi
tutto, essersi fatti scappare un risotto giallo! O gli
immarcescibili Arabi. I primi il riso l’hanno coltivato ed esportato,
i secondi ce l’hanno condotto quasi fin dentro casa. Ma siamo
stati noi italiani, con la creatività che il mondo ci riconosce, ad
inventare e a rendere famoso il risotto.Certo è che nel 1791 il risotto
in Piemonte era già un piatto tradizionale, anche se soltanto del bel
mondo: i Savoia erano soliti farlo servire a mezzanotte, durante i
ricevimenti che davano nei loro bei palazzi torinesi. A codificare il
risotto così come lo intendiamo oggi fu peraltro un cuoco rimasto
semi-anonimo, dal momento che di lui conosciamo soltanto le iniziali:
L.O.G. ….Nessun discorso che si occupi di cucina può comunque
prescindere dal citare, magari di volata, il grande Pellegrino Artusi.
Il grande emiliano (forlimpopolese) …..per poter mettere bocca in
tutto, mise in bocca tutto. Si deve a lui la classificazione dei
risi in base alla cottura. Il risotto acquista così una sua specificità,
cucinato - come dev’essere - in casseruola, con un soffritto al
quale va aggiunto, poco per volta, del brodo.Ma non c’è autenticità
senza certificato di garanzia. Il risotto c’ha pure questo; il suo
imprimatur come capolavoro dell’arte culinaria italiana reca
nientemeno che la firma di Auguste Escoffier. Quando parla, e scrive di
risotti, il celebre cuoco francese non manca mai di definirli
“una preparazione all’italiana”. E li descrive, abbinandoli ai
luoghi d’origine (alla piemontese, alla milanese, alla fiorentina).
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